Racconto d’autunno - Once Upon a Time




ONCE

        Bologna fine anni settanta; sbuffi di vapore e cappotti rigidi dal freddo ci accompagnano per via Rialto, usciamo nella luce di quel dicembre pomeriggio e ci sorridiamo intirizziti, abbiamo voglia di baciarci ma prima fumeremo una sigaretta, sì, ci faremo pungere il naso da quel fumo acre che crea un’atmosfera carboneria metropolitana.
        Quanto potevamo avere, tredici, quattordici anni? Non lo sapremo mai, il ricordo è indistinto come la nebbia dei quei giorni padani vissuti sotto il conforto dei portici; il sottile filo si spezza e quel mondo scompare all'improvviso tra un cinema e un biliardo e i Giardini Margherita che si riavvolgono alla moviola, con il batticuore per il gioco della bottiglia e le notturne magie d’amore di Battisti nelle sue prime apparizioni su TeleCapo- distria che m'implodono nel petto.

UPON

        Sono passati solo cinque anni dai tempi del Rialto e ogni cosa è cambiata; eccomi che cammino in fretta e furia contorcendomi e rabbrividendo sotto il giubbotto di pelle nera, schizzato come James White, dentro ai jeans strappati e infilato negli anfibi troppo grandi che mi ballano ai piedi. Il tipo non si vede. Ho la punta del naso che cola gelata, insensibile. Lo stronzo non c’è. Guardo a destra verso il monumento. Niente. Spazzo le panchine ai due lati con un sguardo circolare disperato. Vuote. Due vecchi e un cane camminano piano. Merda. Il tremito che mi scuote senza tregua riprende più forte mentre il dolore allo stomaco non ha mollato un attimo da quando sono uscito fuori da un incubo per precipitare in una realtà ben peggiore. Casa del Biondo è a pochi metri ma sicuro che non ha niente, tutto quello che potrei ottenere è farmene dire quattro.
A TIME

        Trentacinque anni più tardi sono davanti al computer, seduto nel living di questo appartamento appollaiato tra il verde profondo degli alberi di San Isidro e mentre scrivo a raffica ascolto i Pere Ubu a manetta. Dalla portafinestra posso vedere il grande serbatoio dell’acqua che sotto il cielo nero svetta sul tetto dell’edificio di fronte. Ruggine e cacche di palomas, che qui in Argentina sono belle e grasse e sane e volano alto e cagano come bombardieri, hanno fiorettato il cemento grigio con un effetto gradevole di arte urbana involontaria.
        Per un attimo sono tentato di ascoltare altro, qualcosa che non mi ricordi nulla, poi mi dico che non esiste qualcosa di simile e che in ogni caso devo imparare a dominarmi una buona volta, perché non puoi sempre fuggire, cazzo, a volte devi affrontare il passato quando ritorna. E trovare un accordo di cessate il fuoco.

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