Il gatto in noi - William Burroughs


A parte la parentesi egizia (con la sua adorazione in vita e in morte), le persecuzioni, d'ogni genere, sul gatto non si contano: non soltanto nei secoli più mistici e bui ma, duole dirlo, anche in fasi indubitabilmente laiche, illuminate e carnascialesche (si veda il libro di Robert Darnton, "Il grande massacro dei gatti", Adelphi, Milano 1988. Peraltro, dal maggio scorso, una barbarica, inverosimile sentenza della Corte di Cassazione riconsegna i gatti allo smercio indiscriminato per la vivisezione).


Ad attirare roghi e altre piacevolezze non furono soltanto superstizioni demoniache, ma un'intolleranza di fondo verso la misteriosa, fierissima indipendenza di questo felino. A parte il saggio e benefico "gatto con gli stivali" di Perrault, la letteratura si compiacque di tramandarne soprattutto l'essenza luciferina, l'ambigua selvatichezza, l'abilità nelle apparizioni e sparizioni repentine: il gatto si materializzava sopra un cadavere murato in cantina (Poe), o era il losco compagno della volpe in Pinocchio; sulfureo in Hoffmann e in Bulgakov, inflessibilmente libero e saccente in Kipling. Il tempo, senza alcun dubbio, ha via via incrementato questa predilezione (poeti compresi: Baudelaire, Eliot). 

E, si direbbe, in direzione sempre più strettamente autobiografica, rivelando nel gatto un elemento quasi imprescindibile della nostra esistenza. Ne è come un simbolo quel romanzo di Colette in cui il protagonista si trova costretto a scegliere tra la fidanzata e la gatta (con opzione, senza troppi tormenti, per la "chatte"). E parlano da sole le biografie che delle sue gatte scrisse Pierre Loti, o la fedeltà assoluta di Céline a Bébert in un'Europa ridotta a ferro e fuoco, o il suggello felino che Elsa Morante volle mettere a inizio e fine di "Menzogna e sortilegio". Con Burroughs siamo però di fronte a un testo specialissimo, lucido e determinato, e insieme intriso di disperata sensibilità. A tutta prima, si stenterà, forse, a riconoscere il personaggio devastato e devastante di tanti sconvolgenti romanzi in quel tranquillo borghese che in un supermercato sceglie cibo per gatti e di gatti discetta con una vecchia acquirente. Si pensa forse a Paol Léautaud; ma Burroughs è meno visibilmente patetico e soprattutto meno eroico (perlomeno non altrettanto disposto a sacrificare finanze, casa, amori e carriera letteraria alla raccolta di decine e decine di randagi). 

E poi "Bestiaire" - splendida odissea quotidiana di un ipocondriaco che, su tutto, ama le bestie - è un libro fortuito, casuale, che raccoglie, grazie ai posteri, le molte pagine sugli animali (circa 250, tra il 1908 e il '24) che Léautaud stesso, pudicamente, aveva espunto dai suoi ponderosissimi "Diari". Diaristiche, sono, di fatto, tutte queste notazioni di pedinamenti, apprensioni, ricoveri, malattie, veglie, morti e nascite; meticoloso e ipersensibile, il taccuino di Léautaud descrive giorno per giorno una spirale di tenerezze e di compromessi praticamente senza ritorno. Burroughs ha maggior controllo sulla situazione, nel senso che (per una volta) non si imbarca in situazioni limite. Ma il testo registra una tensione viscerale non certo minore e talvolta delirante. 

E Burroughs, per primo, mostra di accorgersene. Rilegge le prime, trepide pagine del suo stesso testo col più allibito e sarcastico dei commenti ("Mio Dio, sono io?... parole da vecchia checcha bisbetica inglese"). Non c'è bisogno di imbastire il serraglio di Léautaud per soccombere alla passione del gatto in tutti i suoi tortuosi condizionamenti. A Burroughs basta assai meno (poche esperienze, tutte in età senile) per costruire un libro ossessionato da apprensioni, sensi di colpa, sogni e presentimenti sulla sorte dei suoi "compagni psichici" attuali e passati. All'osservazione beata e costante del "piccolo dio del focolare" descritto in tutte le sue virtù con cadenza quasi baudelairiana ("Eleganza, grazia, delicatezza, bellezza"), fa puntuale riscontro la pericolosità di un mondo esterno in cui orde umane e canine attendono al varco l'essere nobile "che non offre servigi", defunzionalizzato da Burroughs anche rispetto alla leggenda del cacciatore di topi. È proprio l'anarchismo e l'estraneità al sistema, che Burroughs, da sempre, difende; e in tal senso i gatti ereditano e continuano il destino degli adolescenti burroughsiani, sì che spesso le identificazioni si accavallano, sino a qualche allusiva reincarnazione (in Ruski rivivrebbero alcune belle e sciagurate esistenze finite male: Kiki, Angelo; del resto, già la popolazione di "Ragazzi selvaggi annoverava gli artigliati ragazzi-gatto). 

 A questo punto s'inquadra perfettamente uno dei cardini del volumetto: la trista avversione per i cani. Addestrati - ed è il peccato capitale - ai peggiori istinti dell'uomo, cacciatori (crudeli sbranatori di volpi), ringhiosi, servili, infidi, turpi, sudici, bavosi, i cani turbano letteralmente, come un malefico archetipo, i sogni di Burroughs. In qualsiasi altro ammiratore del gatto, c'era stato almeno un elogio o un ammicco per questo tradizionale avversario, magari un distinguo (Baudelaire detestava le razze, ma lasciava ai randagi una pagina aurea). Burroughs costruisce invece il libro su un'antitesi, offre un contraltare spietato agli scodinzolamenti devoti di "Cane e padrone" stravolge le virtù canine in abominevoli difetti, incluso il coraggio alla "Zanna bianca": il cane - sentenzia contro il senso comune - è capace di lottare sino alla sua "stupida morte", dove il gatto, vista la peggio, si ritira in buon ordine. 

È la stessa occhiata di simpatia di Céline a Bébert che gli trotterella docilmente a fianco solo per proteggersi dall'aquila dei nazi. Non è un caso, del resto, che una pagina de "Il gatto in noi" sia amorosamente dedicata all'assai codarda volpe del deserto, cauta, furba e sanguinaria, che le simpatie dell'autore vadano alle più curiose varietà di felini selvatici, a certi loro spietati confini coi pipistrelli e i lemuri, lo zibellino e il visone, la moffetta e il procione.  
Se è vero, cioè, che i gatti sono "misteriosamente umani", l'umanità che qui Burroughs intende non è quella che sin nel "ringhio virtuoso" (del cane) svela "l'ottuso moralista", ma è quella innocente e un po' eccentrica anche nella ferocia, libera pur nei compromessi. Forse nessun etologo è stato mai più sottile nel render conto di quel libero patto (e sempre solvibile) tra gatto e uomo, frammisto di diplomazia e fiducia, suscettibilità e indipendenza, infedeltà e affetto. L'ansia profonda del libro è tutt'uno con queste clausole aperte del patto, col lecito e quasi preventivato sparire delle bestie dai perimetri domestici. Ecco allora le ossessioni oniriche con vane ricerche tra squallide ed erbose periferie ("Non avrei dovuto portarlo qui! Mi sveglio che le lacrime mi corrono giù per la faccia"), le ciotole rimesse al loro posto, le luci speranzosamente tenute accese, il vuoto delle stanze che tanto più vuote sembrano perché prive di certe piccole, familiari perfidie.

È il destino di chi, come Burroughs, si è candidato a "Guardiano" di questi esseri "mutanti" e senza difesa: insonne il Guardiano paventa in anticipo, quasi per una dantesca condanna, maltrattamenti e liquidazione dei protetti perché meglio di loro conosce il controllo asettico e spietato che l'ordine borghese ha predisposto anche per essi (il "ricovero" sarà un "campo di sterminio"). "Il gatto in noi" non è soltanto il libro di Ruski e di Fletcher, di Caligo Jane e di Wimpy, ma un po' di tutti i gatti che Burroughs ha avvistato, anche per un attimo, e rievocato con la nostalgia delle occasioni perdute (quasi come le costruzioni del desiderio, nella "Ricerca" proustiana, su lattaie e lavandaie: intraviste e mai fermate). Alla fine, l'appello per "i milioni di gatti che miagolano nelle stanze di questo mondo" e che reclamano quella fiducia per sé e per la propria prole, forse invocata e pattuita, miticamente, migliaia di generazioni or sono. 
Per ogni suo protetto Burroughs, la fiducia, l'ha immancabilmente ripristinata. Da buon Guardiano, mai ignorando la complessità del suo oggetto, anzi esaltandone l'ibrido: "creatura che è in parte gatto, in parte uomo, e in parte qualcosa di ancora inimmaginabile, che potrebbe essere il risultato di un'unione non consumata per milioni di anni". O come recita il congedo, "Noi siano il gatto che è in noi".

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