Un istante

Per qua




to il control

lo?

Pe

«Per quanti anni è durato il controllo?
Per quanto tempo necessaria la punizione?
- Com’è il tuo cuore ora?
- Ora vedo.»

L’estate appare ferma, tutto è sospeso a mezz'aria.
Ho quasi l’impressione di poter respirare il tempo.
Guardo il pulviscolo salire e scendere leggero, magico, nella luce del sole che filtra tra le stecche stanche e scricchiolanti delle tapparelle.
Oggi annuso la vita stessa.

Provo una strana comunione, tali sono la comprensione e l’amore e la nostalgia per la vita.

Non so quanti anni ho oggi. Il succedersi dei pensieri, la rivelazione, e poi il sole fuori, il calore del selciato e qualche lontano schiamazzo sono importanti nella fissità di quest’istante.

Sento che morirò.

Questa stanza che guardo e amo nella penombra, i mobili che portano il marchio dei miei pugni, la scrivania a ribaltina stranamente ancora aggiustata. Guardo a destra, il comodino a due cassetti bianco con la cornice grigio chiaro, aspetta il cucchiaino e la siringa che verranno.

Tutto deve ancora succedere.

Sono giovane, il mio corpo è asciutto. Non mi amo, come sempre.
Fino ad ora ho respirato?
Un rumore spezza là fuori. Rotola e s’allontana assieme al mio presagio.

Dopo il cancello, le scale della cantina sono ripide e curvano subito nel buio, nel tanfo vario in cui prevale quello di piscio umano, dato che ogni tanto la facciamo lì sotto, sul mucchio di sabbia che i muratori non hanno mai portato via.
Scendiamo tra risatine e spinte e mutanti gracchii adolescenti, le voci a tratti roche.

È meraviglioso essere vivi, essere giovani, annusare questa puzza fetida e sapere di dover finire i compiti di scuola lasciati a metà.
Agostino apre la porta della sua cantina con il solito metodo di allentare le viti dell’anello in cui s’infila il paletto.

È buffo da matti pensare alla faccia di suo padre – Fausto - se ci becca. Ne parliamo spesso di questa eventualità e ridiamo che non riusciamo a fermarci. Agostino lo chiama sempre così il padre, col suo nome di battesimo; un’abitudine che presto prenderemo tutti e sarà una nostra peculiarità rispetto alle altre bande. Ciano, Vittorio, Giuseppe detto “Ciccio” e tanti ancóra. Il nome di mio padre – Alfredo – non salta fuori spesso. Era un uomo severo e c’intimidiva tutti. Poi è morto, così ne abbiamo parlato sempre meno.
A dir la verità questa cosa che hanno gli altri di parlare dei loro padri con tanta confidenza mi è un po’ mancata, lo fanno senza tanto rispetto ma anche senza paura, con ironico affetto.

La mano di Agostino spazza il buio come “radarizzata” scansa le
ragnatele e trova il pericolosissimo meccanismo d’accensione. Ce n’è davvero di tutti i colori. Rosse, verdi, arancioni e anche marroncine perché la mischia è venuta male. 

Le abbiamo dipinte con le tempere e mentre si asciugavano le lampadine sprigionavano un odore malefico. Brevemente avevamo pensato che magari era velenoso e che potevamo morire tutti lì e che Fausto ci trovava. Sai che colpo! Ce lo siamo detti e siamo scoppiati in una gran risata piena di vita.

Ci sono stati d’animo che non si possono descrivere per davvero tal è il miscuglio d’emozioni, l’instabilità all'apice. Anche quel giorno, probabilmente, le cose andarono come sempre. Le sigarette fumate a raffica (avevamo circa dodici anni) e i discorsi un po’ da teppisti un po’ da bambini. Il darci addosso a vicenda, a turno. Le alleanze continuamente stipulate e rescisse nel giro di qualche battuta. Qualche rancore a volte, tante le promesse a sé stessi di essere più decisi e taglienti la prossima volta: “non mi farò più prendere per il culo da quello stronzo, chi cazzo si crede di essere? Che poi suo padre non mi sembra neanche uno di Bologna, dev'essere un terrone o giù di lì… "un marocchino merda”.

Però, quando non è così strafottente, Agostino è davvero simpatico. Andiamo d’accordo e poi credo che mi stimi (sono un duro), e penso proprio di piacergli. Altrimenti non mi avrebbe insegnato il trucco per aprire anche il cancello di ferro in cima alle scale, una mossa davvero speciale. Quel vecchio cancello che si deve sollevare un po’ per non farlo cigolare, dipinto una mano sull'altra con vernice grigia chissà quante volte. A strati.

Qua e là qualche goccia di smalto s’è asciugata così, come una perla di cantina.

È stato tanti anni fa.

 

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